Il 19 aprile abbiamo avuto l’onore di ospitare nella nostra scuola il giornalista e scrittore Fabrizio Gatti
e di poter parlare con lui del suo ultimo romanzo “Nato sul confine” e della sua professione. Questo incontro ha colpito tutti perchè non ci aspettavamo potesse essere realmente così emozionante, bello e arricchente. Da subito ci ha coinvolto con il suo importante accenno al valore della nostra Costituzione e all’importanza e al privilegio di vivere in un paese libero e democratico. Poi ha iniziato a raccontarci delle sue esperienze di viaggio migratorio con persone che scappavano dai loro paesi di provenienza, pronte a lasciare tutto per cercare un posto sicuro in cui poter vivere e far crescere i loro figli. Fabrizio Gatti voleva capire, voleva testimoniare e dar voce a questo terrificante esodo e dunque ha deciso di intraprendere il viaggio partendo dal Senegal verso il nord con le tante persone che decidono di partire. Ci ha inoltre parlato delle difficoltà incontrate durante il suo viaggio, infatti spesso veniva fermato con i suoi compagni di viaggio e venivano tutti “sequestrati” temporaneamente finché la polizia non riusciva ad ottenere del denaro da loro; molte persone spesso venivano picchiate violentemente.
Il viaggio è durato circa un mese e mezzo e le persone che partivano erano più di cento, talvolta avevano pochi vestiti non adatti alla traversata del deserto perché li vendevano per guadagnare i soldi per continuare il viaggio. Il mezzo utilizzato era il camion e lo spazio a disposizione era poco. C’era chi si sedeva sui bordi del camion, chi era in piedi e chi invece era seduto sul pavimento e non c’era possibilità di muoversi o cambiare posizione; inoltre l’acqua mancava e, visto che viaggiavano nel deserto, questa si riscaldava fino ad arrivare e 62 gradi.
Durante il percorso nel deserto si potevano incontrare banditi e militari. Questi ultimi erano invidiosi dei migranti perché costoro andavano verso un futuro migliore, mentre loro no; per questo, se un migrante diceva di non avere soldi, i poliziotti prendevano un coltello e glielo infilzavano nelle suole delle scarpe per vedere se davvero non li avesse.
Inoltre Gatti non pensava che la stanchezza fosse così tanta. Durante il viaggio non si poteva dormire perché, se cadevi dal camion, l’ autista non si fermava e così, abbandonato nel deserto, morivi. Per questo motivo i compagni ti tenevano sempre sveglio e ci si aggrappava uno all’altro.
Per noi è stato bello parlare con Fabrizio Gatti perché siamo riusciti a conversare con colui che ha realmente vissuto molte delle cose che sono descritte in “Nato sul confine”. Inoltre la parte più emozionante ed interattiva è stata quando abbiamo iniziato a fargli diverse domande e lui ci ha ascoltato e risposto, lasciando spazio alle nostre curiosità.
L’incontro è stato breve ma intenso e abbiamo imparato molto. L’esperienza personale di Fabrizio Gatti ci ha stupiti e, anche se probabilmente non faremo mai un viaggio come quello che ha fatto lui, abbiamo percepito quanto gli stesse a cuore quell’argomento tanto da rischiare la sua vita pur di testimoniare ciò che accade realmente in questa parte del mondo. Siamo stati davvero felici di aver avuto questa preziosa ed indimenticabile opportunità.
TRAMA DEL LIBRO
Il romanzo “Nato sul Confine” ci racconta una storia commovente tramite la voce di Mabruk, un bambino non ancora nato che si trova nel rassicurante ventre materno, ma che ha la capacità di narrare con chiarezza e lucidità il difficile e doloroso viaggio di chi sceglie di affrontare le insidie del mare, salendo su barconi non sicuri, per scappare da una vita che non lascia scampo e andare alla ricerca di un futuro migliore.
Attraverso la sua voce Mabruk ci parla dell’amore di suo padre, un giovane pediatra, e di sua madre, una farmacista, in fuga dalla guerra civile siriana e disposti a tutto pur di farlo nascere al sicuro, La coppia risiede ad Homs, dove il marito è medico ospedaliero; quando la guerra civile bussa insistentemente alle loro porte, i due fuggono ad Aleppo, ospiti di altre famiglie di medici loro amici. Anche qui purtroppo non saranno al sicuro. Il padre verrà infatti sequestrato e torturato dai servizi segreti e, per non mettere in pericolo la moglie, deciderà di mettere in atto una fuga, separandosi da lei, dopo aver concordato un sistema per mantenersi in contatto. Di lui purtroppo non si saprà più nulla. La fuga continuerà poi in Turchia, Egitto, Libia, punto di partenza per il pericoloso viaggio verso Lampedusa e l’ Europa.
Durante il viaggio Mabruk ci fa incontrare personaggi dolci e premurosi come la pediatra Ola, che si prenderà cura della sua mamma, ma anche trafficanti crudeli e senza scrupoli che approfittano della vulnerabilità e della disperazione delle persone e che non esitano a sparare al barcone carico di uomini, donne e bambini inermi e indifesi. Ci mostrerà infine la forza e la determinazione del dottor Ahmar e del dottor Hadid, che lottano fino all’ ultimo e si impegnano a cercare di salvare più vite possibili.
Attraverso le loro voci e le continue chiamate alla Guardia Costiera italiana e Maltese, si percepisce la consapevolezza e la disperazione di chi sta lentamente affondando. Proprio in quei momenti concitati la madre di Mabruk inizia a partorire; per un istante la vita e la morte si sfiorano, ma la gioia per una nascita è seguita immediatamente dalla tragedia della barca che affonda e dal mare che trascina verso gli abissi la maggior parte dei passeggeri.
DAL ROMANZO ALLA CRONACA: LA NAVE DEI BAMBINI
L’11 ottobre 2013, a 61 miglia dalle coste di Lampedusa, 120 dall’isola di Malta e 17 dalla nave italiana Libra, avviene uno dei naufragi più drammatici di sempre. La notte prima, un barcone partito dalla Libia carico di profughi siriani fuggiti dalla guerra civile, venne attaccato a colpi di arma da fuoco dalle milizie libiche. Il peschereccio iniziò a imbarcare acqua e le persone a bordo chiamarono i soccorsi. Nonostante la presenza di una nave italiana di nome Libra nelle vicinanze, la Marina Militare non interviene e il barcone si rovescia e affonda. Muoiono 268 persone tra cui 60 bambini. Le vicende raccontate nella parte finale del romanzo in cui i protagonisti si imbarcano nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, per salvarsi dalla guerra, sono molto simili a quelle avvenute nella realtà. L’amore di un genitore sfida l’incognito pur di consegnare il proprio figlio ad una possibilità di vita migliore. I bambini vengono consegnati alle onde del mare pur di togliergli al loro destino già scritto. Anche nel libro si racconta infatti che sulla barca ci sono moltissimi bambini, che il barcone viene attaccato a colpi di arma da fuoco e che la Marina Militare Italiana si rifiuta di dare aiuto ai profughi dicendo che era compito di Malta. Alla fine del libro viene descritto il momento in cui il barcone si ribalta e affonda facendo morire moltissime persone, tra cui 60 bambini, come è purtroppo accaduto nella realtà. Fabrizio Gatti nel suo incontro aveva citato una telefonata intercorsa tra i comandanti della nave Libra che erano in servizio quel giorno e le autorità navali deputate al soccorso in mare. Le possibilità di mandare la nave e di salvare almeno la metà delle persone erano alte, ma usando un linguaggio volgare e facendo paragoni fuori dal comune, nessuno tra coloro che erano in servizio quel giorno ha voluto intervenire in questa tragedia, malgrado tutti i dettagli dati dai migranti in punto di morte. I comandanti hanno ordinato alle persone sul barcone di chiamare Malta, isola molto più lontana da Lampedusa e che di sicuro non sarebbe riuscita ad intercettare in tempo il barcone.
Sentire le voci di persone che avevano bisogno di aiuto, con tanti bambini e tanti adulti che stavano affondando e nessuno che si prendeva una minima responsabilità di salvarli, è stato davvero angosciante.
Italia e Malta non avrebbero nemmeno dovuto pensare a chi era più vicino o più distante, sarebbero dovuti partire indipendentemente da tutto.
TEMATICHE PRINCIPALI CHE TRATTA IL LIBRO
I temi principali del romanzo sono di grande attualità e riguardano il numero sempre crescente di migranti che cercano di raggiungere l’Europa sbarcando sulle coste italiane.
Nel libro c’è grande attenzione rivolta alla condizione dei migranti durante il viaggio.
Si indagano le motivazioni, le difficoltà, le speranze di ciascuno di loro. Tra gli altri temi emerge anche quello della speranza nella disperazione, della paura di rimanere e della paura di partire, ma al tempo stesso emerge con forza anche la determinazione che spinge ogni migrante a perseguire il proprio obiettivo. Infatti ogni anno migliaia di persone si trovano costrette a fuggire da guerre o ingiustizie sociali presenti nel proprio paese d’ origine.
Il libro di Fabrizio Gatti tratta tematiche delicate in modo serio e professionale, non nascondendo gli orrori, ma inserendo anche momenti di tenerezza e di soccorso nelle difficoltà.
Un altro aspetto significativo sul quale riflettere è il fatto che il nome è il primo confine col quale un essere umano fa i conti, perché il nome ti identifica e ti espone per questo spesso al pregiudizio altrui. Il nome ti identifica come essere umano all’interno della famiglia intesa come porto sicuro e come proiezione verso un futuro migliore. Legato al tema della famiglia troviamo quello dell’amore che c’è tra i genitori di Mabruk che riesce a superare ogni confine che gli viene imposto. Un amore incondizionato per un figlio non ancora nato, un amore e un attaccamento alla vita senza eguali, un amore profondo che lega un uomo a una donna, un amore e un legame indissolubile nei confronti della propria terra e delle proprie radici.
LE NOSTRE FRASI DEL CUORE
“Adesso possiamo solo partire. Alle spalle non ci rimane più nulla”.
Questa frase ci ha colpito molto perché riassume bene il senso di disperazione e perdita che vivono i migranti che devono lasciare la propria terra.
“Se il mondo fosse abitato da disertori, non ci sarebbero guerre. E gli Stati, i presidenti, i dittatori, gli uomini e le donne colpiti dall’infezione dell’odio, sarebbero così costretti a risolvere i loro contrasti con la parola, il dialogo, la diplomazia”.
E’ bello pensare che se le popolazioni di tutto il mondo si unissero per rifiutare la violenza e rinunciassero a combattere, allora i leader sarebbero costretti a trovare soluzioni alternative e pacifiche per risolvere i loro contrasti.
“No, vogliamo solo che sia sano e non nasca in guerra. E’ l’unico nostro desiderio”. “Abbiamo già sopportato tanto, e loro troppo…”
Queste due frasi ci hanno colpito perché ci hanno fatto capire l’amore delle madri per i loro figli e il desiderio di costruire un futuro migliore per la propria famiglia.
“Comunque non è importante il nome, secondo me. Noi esistiamo a prescindere da quello che ci viene assegnato per tutta la vita. Ma il nome aiuta a distinguersi nell’umanità e purtroppo ci vincola alla storia, alla cultura, alla religione da cui proveniamo: ci sono nomi di origine musulmana, cristiana, ebraica, induista, confuciana e poi nomi europei, americani, asiatici, arabi, latini e chissà quanti altri. Il nome diventa così il primo confine, il primo elemento per costruire identità e nazioni, che a volte diventano destini da cui non c’è scampo e conducono le persone alla guerra. O almeno così vogliono farci credere.”
Questa frase ci ha colpito perché nonostante la guerra e tutti i problemi che la vita ci pone davanti, il nome ci ricorda che siamo qualcuno. Non importa da dove proveniamo perchè basta avere un nome e siamo tutti uguali, tutti esseri umani, senza distinzioni. Il nome è quindi il primo confine che ci viene imposto ma anche il primo mezzo che ci unisce.
“Ha guardato mia madre negli occhi ed è scoppiato a piangere come un bambino. Anche un medico, prima o poi crolla.”
Questa frase ci ha sorpresi molto; infatti si percepisce quanto ogni singolo migrante possa stare male per la propria situazione, non solo un bambino, ogni persona.
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